SULLE ORME DEL BRIGANTE ZANZANU’
di Franco Ghitti
Gran parte della mia vita l’ho passata in montagna, e ancora oggi sto qui, osservando dall’alto i luoghi che mi hanno visto protagonista di tante contrastate vicende.
Certo, adesso non è più come ai miei tempi, cartelli, addirittura aggeggi che ti seguono passo passo e che registrano ogni tuo movimento. Ma l’ambiente mi intriga ancora, sono curioso di capire, ad esempio, come tanta gente possa spostarsi e faticare per puro diletto e solo per qualche ora, senza raccogliere legna o strame, cacciare o accompagnare al pascolo pecore o capre, oppure per sottrarsi alla cattura, come è capitato a me.
In passato, nel mio passato, la montagna era qualche cosa di misterioso e di oscuro. Già a poca distanza dai borghi abitati erano pochi quelli che osavano avventurarsi e questo, lo ammetto, ha giocato molto a mio favore. Conoscevo ogni angolo, ogni anfratto, e in ogni anfratto che potesse darmi riparo posso dire di aver pernottato.
Ho vissuto una vita selvatica, ma non ero solo, con me altri compari condividevano la mia sorte.
Ci spostavamo velocemente, come quei corridori che vedo andare su e giù per i monti senza fermarsi mai, come se avessero qualcuno alle calcagna che li vuole catturare, spesso anche di notte. Anche per noi era così, ma dopo i primi tempi con il cuore in gola, nemmeno la fatica sentivamo, certe volte addirittura ci divertivamo a provocare per seminare gli inseguitori, incuranti del rischio per le nostre vite.
Avevamo amici che ci proteggevano, che stavano dalla nostra parte, ma per tanti, soprattutto per le autorità che non volevano comprendere le nostre buone ragioni e per quelle canaglie dei cacciatori di taglie, eravamo ambiti ben più della selvaggina. Facevano di tutto per catturarci e per portare le nostre teste mozzate come trofeo, ai piedi della colonna di San Marco che stava davanti al palazzo comunale di Salò, allora sede della comunità che si insigniva dell’altisonante nome di Magnifica Patria. Si, proprio quel palazzo del governo in riva al lago a Salò dove fino all’anno scorso per quella gara, come la chiamate? BVG? veniva dato il via a una torma di poco normali che si battono fino allo sfinimento per portarsi via alla fine, poveretti, al massimo un pezzo di formaggella.
Ero stato bandito dalla comunità, ma non ero un malfattore. E’ vero, durante una parata militare nella piazza al porto di Bogliaco, per difendere l’onore violato del mio clan familiare, sono stato costretto ad accoltellare il fratello di quello che aveva ammazzato un mio parente e ferito alla gola la figlioletta e che in seguito altre tre persone a me vicine aveva freddato a colpi di archibugio. Il Chierico lo chiamavano, quel brigante!
Dopo quell’incidente sono stato costretto a darmi alla macchia. Ma tutto sarebbe rientrato, la famiglia nostra, grazie ai buoni uffici di un frate all’interno del chiostro della chiesa di San Francesco a Gargnano, si impegnò solennemente qualche tempo dopo, stipulando un patto di pace con i familiari del Chierico che aveva posto fine alla sua prepotenza e si era vista esposta la testa mozzata sulla colonna di Salò.
La riappacificazione avrebbe contribuito alla mia riammissione in quella che ora chiamereste la società civile. In fondo avevo solo accoltellato quel giovane, ma dai, mica era morto!
Invece, nonostante l’accordo solenne, accadde un fatto, un fatto di una gravità che ancora adesso mi fa stringere i pugni e digrignare. Mio padre, persona anziana, ormai sessantenne e inerme, viene brutalmente ucciso a tradimento, ad opera di un compagno del Chierico, sotto il portico del comune di Gargnano (si quel palazzetto vicino al porticciolo, proprio quello di fianco al quale sfilano anche quest’anno i corridori della formaggella).
Erano quelli tempi decisi, violenti e pericolosi (come fate a lamentarvi adesso?) ma la parola, la parola data era sacra e inviolabile!
La vendetta a questo punto era per me un obbligo. In preda all’ira, con l’aiuto di altri familiari e amici scaricai la mia rabbia compiendo una strage, uccidendo ad archibugiate almeno due persone legate a quel brigante e ferendone tante altre in vari agguati tra Gargnano e Toscolano, in certi casi anche colpendoli sulla barca, dalle rive del lago.
Dopo questi atti, risalendo sui monti dopo Sasso di Gargnano, tra Rasone e Briano, trovavamo rifugio oltre confine, nella Valvestino che era sotto la protezione del Vescovo di Trento e quindi dell’Austria. Se fossimo rimasti saremmo stati preda dei cacciatori di taglie, ma come facevamo a mantenere in latitanza e contemporaneamente a sostenere le nostre famiglie? Avevo una moglie e parecchi figli a Gargnano e, nonostante fossi stato messo al bando, qualche visita notturna me l’ero ben concessa, mettendola incinta parecchie volte.
Ricorremmo così al primo sequestro di persona, richiedendo il riscatto a un facoltoso possidente, un certo Protasio di Toscolano. Da Toscolano lo prelevammo forzatamente da casa e lo conducemmo, su un sentiero ripido alle spalle del paese, fino a Gaino e da qui alla chiesa di Supina e a Fornico e su, su, fino a una grotta oltre Navazzo passando nel posto dove adesso i turisti si rilassano nuotando in piscina. Ma senza cattiveria, non gli torcemmo un capello e dopo pochi giorni lo liberammo riportandolo bel bello a casa (guarda caso facendo lo stesso percorso di quelli della formaggella).
Dopo queste avventure e diverse altre, le imprese mie e della mia banda erano ormai sulla bocca di tutti e ingigantite. E così tanti, troppi, se ne approfittarono vigliaccamente, incolpandomi di misfatti nei quali non c’entravo niente e che magari erano opera loro. Un centinaio addirittura gli ammazzamenti e i delitti che mi vennero attribuiti, tra cui, nel Duomo di Salò, durante una funzione religiosa, addirittura quello del podestà! Una vera esagerazione!
Devo ammettere, il fatto di essere così considerato aveva in compenso il suo rovescio della medaglia, dei vantaggi… Con il passare degli anni ero diventato una leggenda, ammirato dalle donne: non ci crederete, ma alcune giovani donzelle, saputo che per una scorribanda era tornato a Gargnano, il mio paese natale, mi andarono a cercare accogliendomi estasiate, come si farebbe adesso per una pop star. Indimenticabile quel giorno!
È si, tra tante vicissitudini, ho avuto anche momenti di bella vita e di ammirazione e il tempo di godermi gli spettacoli e i panorami della natura che mi circondava, che posti meravigliosi!
Ma torniamo alle mie avventure, non posso di certo raccontarle tutte. Vi basti sapere che per ben 15 anni son vissuto alla macchia con i miei compagni, scampando più volte ad agguati nei quali, purtroppo, diversi di loro vennero catturati ed uccisi.
Fino a quel giorno fatidico, il 17 agosto 1617, lo ricordo bene! Per mantenere la nostra latitanza sequestrammo un possidente, un certo Cavaliere o Cavallaro di Piovere, trascinandolo lungo la valle di Vione (quella sopra le cascate per farvi capire dove) progettando di condurlo a un nostro nascondiglio nell’entroterra, quelli che ancora adesso si chiamano “cuel”, una rientranza nella roccia, diverse della quali sono ormai abbinate al mio nome. Da qui lo avrei condotto oltre il confine per trattare con calma il riscatto.
Ma le cose non andarono come speravo, complice lo stato di guardia per la guerra minacciata con i granducali legati agli austriaci, la milizia locale era allertata e i rintocchi a martello della campane richiamarono in un battibaleno un piccolo esercito, con armati attirati da tutti i comuni vicini.
Ci intercettarono poche ore dopo e Iniziò così un violento scontro a fuoco, con diversi morti e feriti da una parte e dall’altra, come in un film del Far West. Archibugiate che risuonavano rimbombando per la stretta valle e i miei nemici che si avvicinavano con un carro protetto sul davanti da una lamiera (anche i carri armati si sono inventati per avvicinarsi senza correre rischi, quei felloni!).
Ma ero pur sempre il brigante Zanzanù! Vistomi circondato, li sorpresi giocando il tutto per tutto buttandomi a capofitto nella valle, riuscendo a beffarli!
Purtroppo più in basso altre milizie mi attendevano e non ebbi il tempo nemmeno a reagire. Non ricordo più niente di quei momenti. O meglio, devono avermi colpito, non ho più calcato la terra da allora.
La notizia della mia uccisione ebbe un grandissimo risalto, le campane risuonarono a festa, addirittura tutte le fasi della battaglia furono immortalate come in un reportage da Andrea Bertanza, un quotato pittore dell’epoca, e il grande quadro venne appeso, per grazia ricevuta, addirittura nel Santuario della Madonna di Monte Castello a Tignale. Non ci credete? È ancora lì, a testimoniare quanto vi ho raccontato, andate a vederlo!
Ora osservo tutto da debita distanza, dall’alto. Mi annoio un po’ e qualche volta una capatina da quelle parti mi piace farla ancora. Stavolta potrei, ad esempio, mettere il fiato sul collo a quelli che, ansimando, saliranno di notte lungo il Senter dèl Luf. Un puro divertimento, il buio è sempre il mio elemento e qualcuno mi evoca ancora, ma tranquilli, ormai non posso più nuocere a nessuno, ma magari farli correre più svelti si!
A proposito… quel Cavallaro, quello che ho rapito l’ultima volta…, è riuscito a svignarsela indenne dalla battaglia approfittando della confusione.
La persona che vi sta raccontando per mio tramite, potrebbe essere un suo discendente per parte di madre, anche con lui ci siamo appacificati, e, considerati i tempi, soppesati i pro e i contro, certamente mi ha perdonato. Fortunatamente ha letto il bellissimo romanzo di G. García Marquèz, “Cronaca di una morte annunciata”, ove la vendetta è un destino, anche per me in origine è andata così.
Franco Ghitti
La vicenda di Giovanni Beatrice, detto il brigante Zanzanù è ampiamente documentata, con grande dovizia di particolari, dai verbali dei giudici dell’epoca. Non è una leggenda! Tutti i fatti riportati corrispondono al vero.
Chi volesse approfondire si legga il libro “Zanzanù, il bandito del lago” di Claudio Povolo, edito da Il Sommolago, da cui abbiamo raccolto le informazioni.